L'interpretazione cristiana

L'uomo non è la vita, non si dà la vita, ma la riceve in dono dal suo Creatore. Questo è il punto di partenza della visione cristiana dei problemi della bioetica. La vita è un valore primario, fondante a cui ogni altro valore, interesse, bisogno e diritto è subordinato. Il mondo è una realtà creata da Dio e il vertice della creazione è la vita umana, che nella Bibbia è considerata come immagine stessa di Dio. Di qui la sacralità della vita, da cui derivano la sua intangibilità e il divieto di piegarla agli interessi degli uomini. Scrive il papa Giovanni Paolo II nell'enciclica "Evangelium vitae" dedicata a questi temi:

"La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente". (...) Dio si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento "non uccidere", posto alle basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il "goel", ossia il difensore dell'innocente". (Evangelium vitae, 53)

Su questa base si comprende come l'insegnamento della chiesa abbia sempre tenuto saldo il principio che nulla può mai giustificare la soppressione, alterazione o manipolazione della vita:

"Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l'onore del Creatore". (Gaudium et spes, 27)

Infine, da un punto di vista strettamente teologico, c'è una ragione in più per i cristiani per affermare il principio della sacralità della vita: è la redenzione di Cristo, che è morto per ogni uomo e che per ciascuno ha dato se stesso sulla croce. Alla dignità dell'essere creato da Dio, che condivide con ogni creatura e con l'universo intero, l'uomo secondo il cristianesimo aggiunge la dignità nuova dell'essere un "salvato", un uomo per il quale Dio ha ritenuto valesse la pena di vedere il proprio Figlio torturato e ucciso. Questa dignità nuova di redenti per i cristiani è di ogni uomo e di ogni donna, indipendentemente dall'essere nati o no, bambini o anziani, sani o malati, ricchi o poveri. È il segno che ogni vita umana porta incondizionatamente su di sé dal suo sorgere e che è iscritto nel volto di ognuno su cui è possibile leggere il comandamento fondamentale di ogni etica: "non uccidere".

Le ragioni della bioetica in prospettiva cristiana in definitiva sono una difesa contro il totalitarismo della ragione e della tecnica e la memoria viva che l'uomo non è il padrone dell'universo ma il suo custode, che la vita dell'altro viene prima del proprio piacere e del proprio interesse, che la stessa vita propria proviene da un "infinitamente Altro" a cui andrà un giorno riconsegnata.

La bioetica richiama l'uomo alle sue responsabilità morali nei confronti dell'uso che egli fa del mondo e della vita, sia verso i suoi contemporanei, sia soprattutto verso le generazioni future a cui riconsegneremo il mondo. La serietà e la gravità delle questioni in gioco non devono però scoraggiare l'ottimismo e la fiducia, come ci propone di fare l'autore del brano che segue:

"In uno dei più piacevoli libri dell'Antico Testamento, il racconto intitolato Giona, si narra come alla fine, dopo l'episodio della balena, Giona, profeta contro la propria volontà, inizi la sua predicazione a Ninive, riscuotendo peraltro un grande successo: la città muta la propria immorale condotta, e la catastrofe preannunciata non ha luogo; la profezia di Giona è stata efficace proprio perché si è neutralizzata da sé. (...) Ma Giona non riesce a capire questa singolare dialettica insita nella sua vocazione e rimprovera a Dio di non aver mandato in rovina Ninive. Cosa fa Dio allora? Fa crescere un arbusto accanto alla casa di Giona e di lì a poco lo fa morire; e quando Giona gli muove dei rimproveri anche per questo motivo, Dio gli chiede: "E tu che per la morte di una sola pianta soffri tanto, vuoi che io distrugga una città intera nella quale vivono anche molti uomini innocenti e molti animali?" Il finale conciliante di questo racconto, che è uno dei più bonari e leggiadri dell'Antico Testamento, commuove non solo perché costituisce uno dei pochissimi passi, se non l'unico, dell'Antico Testamento in cui Dio dimostra un interesse diretto per gli animali, superando così il suo consueto atteggiamento antropocentrico, ma anche perché contiene una critica, blanda e saggia, alla durezza del carattere del profeta alla sua classica déformation professionnelle. I prossimi decenni rivoluzioneranno molti dei nostri concetti morali; per questo avremo bisogno di qualche profeta; l'esempio di Giona valga a dissuaderlo dal desiderare alfine, solo per aver ragione, i mali da cui ci avrà messo in guardia". (V. Hoesle, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino 1992, p. 104-105).

 

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